La paura di muoversi a piedi e in bicicletta nelle nostre città
Non conoscevo la storia di Michele Scarponi. Sapevo della sua tragica morte, ma era per me solo una delle circa 3.200 persone uccise sulle strade italiane ogni anno, quelle per cui mi batto insistentemente da più di 20 anni, da quando preparando la mia tesi nel 1999 capii che se si vuole incentivare la mobilità sostenibile è fondamentale e necessario lavorare prima di tutto sulla sicurezza stradale.
I numeri dell’incidentalità in Italia sono quelli di una strage quotidiana, eppure poco o nulla stiamo facendo per ridurre tali numeri. L’Italia è tra i pochi paesi europei in cui l’incidentalità urbana continua a crescere: 28,9 morti per milione di abitanti, il doppio rispetto alle Germania (15,7 morti per milione di abitanti), il triplo rispetto alla Gran Bretagna (10,9 morti per milione di abitanti).
Tutto ciò si traduce nella paura di muoversi a piedi e in bicicletta nelle nostre città, nel disincentivo alla mobilità attiva. Da uno studio condotto dai ricercatori olandesi Piet Rietveld e Vanessa Daniel emerge che il principale deterrente all’utilizzo della bicicletta è proprio la scarsa sicurezza stradale. Il rischio di essere coinvolti in un incidente stradale è percepito al punto tale da convincere molti potenziali ciclisti a lasciare a casa la bici per rifugiarsi nell’automobile.
Una conferma arriva anche dallo studio dell’Istc-Cnr promosso dal Policy Studies Institute di Londra , un’indagine che riguarda 15 Paesi del mondo, tra cui Italia e Germania, in cui si evidenzia che i genitori italiani accompagnano i propri figli a scuola in automobile molto di più rispetto agli altri Paesi Europei. L’autonomia di spostamento dei bambini italiani nell’andare a scuola è passata dall’11% nel 2002 al 7% nel 2010. Per fornire un metro di paragone l’autonomia dei bimbi inglesi è al 41% e quella dei tedeschi al 40%.
Le conseguenze sono purtroppo anche sulla qualità della strada come spazio pubblico. Le città italiane sono senza alcun dubbio tra le più belle al mondo, ma le troppe automobili e l’uso eccessivo del veicolo privato ne pregiudicano in maniera evidente la qualità e la vivibilità. Quante delle nostre piazze storiche sono state trasformate in parcheggio perdendo la funzione per cui sono state realizzate?
Un problema culturale
Ritengo si tratti di un problema principalmente culturale: la strada in Italia è considerata ancora assoluta proprietà dell’automobile. È evidente nel fatto che siamo tra i pochi paesi europei in cui il pedone si sente in dovere di ringraziare l’automobilista quando attraversa sulle strisce pedonali. Strisce pedonali dove come diceva Severgnini in un articolo sul Corriere della Sera “si misura il valore della vita” e dove invece ancora oggi metà dei pedoni perdono la vita. È evidente nelle velocità eccessive dei veicoli a motore che ancora caratterizzano le nostre strade urbane. È evidente nella pressoché totale assenza di strumenti di moderazione del traffico nella progettazione e riqualificazione delle strade. È evidente infine nel fatto che ancora troppo spesso si realizzano piste ciclabili sui marciapiedi, sottraendo spazio ai pedoni e contribuendo a creare un conflitto tra gli utenti deboli della strada (un unicum in Europa), invece di sottrarre spazio alle automobili redistribuendo equamente lo spazio stradale.
Cambiare modello di mobilità è quindi una necessità. E il modello che si è imposto nelle città e nazioni che riconosciamo essere esempio in termini di mobilità sostenibile è quello della moderazione delle velocità e della condivisione della strada come spazio pubblico. È quello della Città 30.
Sono ormai numerose le città europee diventate Città 30: Parigi, Bruxelles, Amsterdam, Berlino solo per citarne alcune. Ma il tema è considerato tanto importante che la Spagna l’11 maggio 2021 ha introdotto il limite di velocità a 30Km/h in tutte le strade urbane di tutte le città del paese (sono rimaste a 50Km/h solo le strade a due corsie per senso di marcia) e il Parlamento Europeo a ottobre 2021 ha votato a stragrande maggioranza una risoluzione che chiede l’introduzione di tale limite in tutte le città europee, per dimezzare i morti entro il 2030 e azzerarli entro il 2050.
Perchè ridurre la velocità in ambito urbano?
Ma perché è così importante ridurre la velocità in ambito urbano?
Non solo per aumentare la sicurezza stradale, che come detto è forse l’aspetto più importante per incentivare la mobilità attiva, ma anche e forse soprattutto per aumentare la qualità e la vivibilità delle nostre città, per ridistribuire equamente lo spazio pubblico per tutti gli utenti della strada.
Ridurre la velocità dei veicoli a motore (e ridurre il numero dei veicoli nelle nostre strade) significa poter ridurre lo spazio ad essi dedicato in contesti consolidati dove tale spazio è preziosissimo, a favore di marciapiedi più ampi e accessibili, di percorsi ciclabili, del verde urbano (quanto è importante l’alberatura stradale per la riduzione dell’inquinamento, del rumore, delle isole di calore), degli spazi per le persone come giochi per i bambini, panchine e tavoli per tornare a vivere lo spazio pubblico (quanto è importante per le persone anziane potersi riposare ogni tanto durante una passeggiata), per creare nuovi luoghi di relazione e socializzazione.
Ridurre la velocità significa quindi superare il modello della separazione e rendere la strada uno spazio condiviso e accessibile per tutti gli utenti della strada, indipendentemente dal loro modo di spostarsi, senza barriere architettoniche e culturali. Perché “la strada è di tutti, a partire dal più fragile”.
Ma come sono riusciti i paesi e le città più virtuose a creare una nuova cultura del traffico e ad avere il consenso necessario ad attuare questa vera e propria rivoluzione della mobilità urbana?
“La maggior parte delle persone non sa che le zone 30 aumentano la qualità della vita e riducono sensibilmente il rischio di incidenti e serve quindi una efficace campagna di informazione per creare una nuova cultura del traffico” (Lydia Bonanomi , autrice del libro “Les Temps de Rue” e madrina della moderazione del traffico che incontrai per la mia tesi nel 1999).
Il coinvolgimento delle persone attraverso una comunicazione diretta è quindi la chiave del successo: occorre spiegare, raccontare e condividere i benefici di un nuovo stile di vita che altrimenti difficilmente verrebbero compresi ed accettati. Serve quindi un serio dibattito pubblico a livello nazionale, come fatto in Spagna per le importanti trasformazioni attuate negli ultimi 10 anni, con il coinvolgimento di esperti che affrontino scientificamente le conseguenze del modello autocentrico ed i vantaggi derivanti dal rimettere al centro della mobilità urbana le persone, di “dare strada alle persone”.
Non è un conflitto tra utenti della strada
Ma soprattutto serve andare oltre il conflitto tra gli utenti della strada che tanto piace alla stampa nostrana.
Le numerose ricerche condotte nei paesi che hanno adottato da molti anni gli indirizzi di intervento caratteristici delle tecniche di moderazione del traffico, evidenziano che la riduzione di velocità comporta benefici non soltanto per gli utenti deboli della strada, ma anche per gli stessi automobilisti. La città 30 non è quindi una misura contro gli automobilisti, bensì a favore della sicurezza e della convivenza tra tutti gli utenti della strada, per ridare qualità alla strada come spazio pubblico. Per città che siano realmente vivibili, sane, resilienti, inclusive (parole che sentiamo ripetute in ogni occasione ma che nella pratica sono purtroppo ancora troppo spesso vuote).
Non è una questione politica, è una questione di civiltà.

Michele Scarponi
Non conoscevo Michele, ma ho conosciuto Marco in occasione di un convegno dal titolo “Sicuri in città: interventi per una mobilità a misura di persona” organizzato nella Sala della Regina a Montecitorio il 23 luglio 2018.
Ho conosciuto Michele attraverso i racconti di Marco. I brividi sentiti durante il racconto della sua esperienza mi hanno immediatamente fatto capire che la sua battaglia era la mia. E credo ancora oggi che la cosa sia stata reciproca. Ne è nata subito un’amicizia forte, sincera, appassionata, rara.
È stato quindi per me naturale decidere di collaborare sin da subito con la Fondazione. Sono passati ormai 4 anni da quel giorno e ben poco è cambiato.
Ma la battaglia della Fondazione perché la Strada sia di tutti a partire dal più fragile continua, per Michele, ma anche per Manuel, per Huub e per ognuna delle 9 persone che ogni giorno perdono la vista sulle strade italiane.