Le cose da non fare

Per una città ciclabile: le cose da non fare

La prima e più importante questione che le azioni per la difesa e diffusione della mobilità ciclistica urbana devono saper affrontare è quella della costruzione di un contesto generale “amico” della bicicletta, nel quale cioè sia possibile per un ciclista muoversi ovunque in modo confortevole e sicuro.

Gli elementi che concorrono a formare un tale contesto sono diversi e di diversa natura, e vanno dal comportamento degli utenti motorizzati, alla corretta distribuzione dei servizi urbanistici, alla qualità dello spazio pubblico, ai livelli di servizio offerti dal trasporto pubblico, ecc.

Troppo spesso in città come le nostre si pensa che la strada sia proprietà delle automobili. In realtà, è uno spazio urbano in cui devono convivere diverse categorie di utenti, dal pedone al ciclista, dall’automobilista al motociclista. L’effetto di questa errata convinzione è un uso della strada aggressivo soprattutto da parte degli automobilisti, con conseguenze negative sul piano della sicurezza ed anche dal punto di vista educativo.

I risultati sono ben evidenziati nell’analisi degli incidenti stradali recentemente diffusa da ISTAT e ACI: solo nel 2011 si sono verificati 205.638 incidenti con 3.860 morti e 292.019 feriti, un dato elevatissimo -una vera e propria strage- che oltre a pregiudicare la vivibilità delle nostre città, provoca un costo sociale per la collettività (derivante dai ricoveri e dalle cure mediche conseguenti) che in Italia equivale al 2% del PIL (30 miliardi di euro).

E come evidenziato dalle più avanzate ricerche realizzate in ambito europeo, è la velocità il fattore determinante della gravità dell’incidente. Per tale motivo l’Italia si è impegnata, insieme a tutti gli stati membri dell’Unione Europea, per la riduzione dell’incidentalità in ambito urbano mettendo in sicurezza le nostre strade attraverso la tecnica della moderazione del traffico.

Numerose ricerche, condotte nei paesi che hanno adottato da molti anni gli indirizzi di intervento caratteristici delle tecniche di moderazione del traffico, evidenziano che la riduzione di velocità comporta benefici non soltanto per gli utenti deboli della strada, ma anche per gli stessi automobilisti. Non sono quindi misure contro gli automobilisti ma a favore della sicurezza e della convivenza tra tutti gli utenti della strada.

La qualificazione della rete viaria in contesto urbano, attraverso le tecniche proprie della moderazione del traffico, risponde a tre obiettivi contestuali: moderare la velocità del traffico veicolare, mettere in sicurezza le utenze pedonali e ciclabili e rendere maggiormente fruibile la strada come spazio di relazione tra luoghi e funzioni. Si tratta del concetto di living street, che riferisce della possibilità di pensare alla strada urbana non solo come asse di scorrimento del traffico veicolare, quanto come spazio di relazione tra una pluralità di utenti (automobilisti, pedoni, ciclisti, residenti, scolari …) e di funzioni.

Parlare di sicurezza significa quindi che qualsiasi progetto, anche di un percorso ciclabile, deve relazionarsi con il contesto attraversato, deve essere pensato come un progetto di riqualificazione generale dell’infrastruttura. Rendere sicura una strada significa favorire tutte le utenze, facilitare ad esempio l’attraversamento della carreggiata da parte dei pedoni, aumentare la percezione di sicurezza, rendere di conseguenza più attraenti modalità di spostamento alternative all’automobile.

Pensare non solo a infrastrutture ciclabili, quindi, ma anche e soprattutto a un ridisegno della strada per ridurre le velocità degli autoveicoli, dare continuità ai percorsi, proteggere gli attraversamenti trasversali, evidenziare l’ingresso alle zone residenziali e ridurre di conseguenza i livelli di incidentalità.

Proprio partendo da questi presupposti il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione nella quale si raccomanda vivamente alle autorità competenti di introdurre limiti di velocità di 30 km/h in tutte le aree residenziali e nelle aree urbane dove non è possibile realizzare percorsi ciclabili. Questa risoluzione è parte di una vasta gamma di misure per dimezzare in Europa i morti per incidenti stradali entro il 2020.

D’altronde i benefici della moderazione del traffico e della realizzazione di zone 30 sono ormai evidenti nelle numerose esperienze europee (a Londra uno studio durato 20 anni su 20 grandi zone cittadine ha calcolato che estendendo le zone a velocità limitata a tutta la città si potrebbero risparmiare 692 vittime ogni anno, con 100 morti in meno) ed ora anche italiane. La nuova zona 30 di Torino Mirafiori, che ha coinvolto 10.000 residenti ed è terminata nel 2009, in due anni ha prodotto i seguenti risultati: 0 incidenti gravi, -74% giorni di prognosi, -15% di traffico, -11Km/h nelle velocità di punta, sorpassi quasi scomparsi. Ciò ha significato un risparmio complessivo di 1,5 milioni di euro di cui 500mila di soli costi sanitari. I giudizi negativi son passati dal 19 al 7% ed il 68% dei residenti non tornerebbe indietro.

La questione della moderazione del traffico resta quindi tra tutti lo strumento in assoluto più importante su cui deve potersi basare qualunque politica per la ciclabilità.

La seconda importante questione riguarda l’obiettivo, che deve essere quello di ottenere più spostamenti in bicicletta e non semplicemente quello di avere più piste ciclabili.

Per difendere e diffondere l’utilizzo della bicicletta quale mezzo di trasporto primario, capace di soddisfare soprattutto gli spostamenti casa-scuola e casa-lavoro e di accesso ai servizi, e non solo quelli ricreativi o sportivi o di brevissimo raggio, è necessario individuare e realizzare una rete ciclabile strategica, continua, attrattiva, breve e ben riconoscibile, attraverso l’esecuzione di un piano ciclistico, il Biciplan.

Tale rete dovrà risultare quindi formata da itinerari continui che garantiscano il collegamento tra nuclei insediati limitrofi, l’accesso ai principali poli urbanistici di interesse, ai nodi del trasporto pubblico, ai grandi sistemi ambientali.

E come riferisce Gilbert Lieutier (Capo progetti al CETE Méditerranée, Dirigente del dipartimento infrastrutture e trasporti francese e Presidente dell’associazione «Rue de l’avenir») nel quaderno Gallimbeni recentemente pubblicato da Fiab, eccetto che sulle strade della rete primaria, i percorsi ciclabili non dovrebbero essere necessari.

Ciò significa per le amministrazioni dover investire per lo sviluppo della rete portante dei percorsi ciclabili, le ciclovie, mentre per la rete di supporto le risorse (già scarse) andrebbero indirizzate verso la moderazione del traffico e le zone 30, consentendo al ciclista e agli altri utenti di percorrere la strada in sicurezza. Se le velocità sono moderate, il traffico motorizzato può convivere con la mobilità lenta, di chi va a piedi e in bici, e non c’è bisogno di separarne i movimenti, con lo spreco di spazi urbani che ne consegue (cit. Dario Manuetti).

Ma quali tipologie di percorsi ciclabili sviluppare per la rete portante? Preferenziazione o separazione in ambito urbano?

Una delle modalità più importanti per realizzare rapidamente un’efficace, diffusa ed economica protezione della circolazione ciclabile è quella delle corsie riservate ricavate direttamente sulla carreggiata (preferenziazione). Questa affermazione, poco condivisa nella pratica applicativa nazionale, è invece sempre più fortemente sostenuta nei paesi europei di ‘nuova ciclabilità’, che arrivano ormai a preferire nettamente soluzioni che, anche se apparentemente più vulnerabili, per la loro ottima accessibilità e semplicità d’uso vengono effettivamente utilizzate da tutti, e a tutti offrono un comunque significativo grado di protezione. Soluzioni maggiormente strutturate, ma meno accessibili, al contrario lasciano senza alcuna protezione la spesso non trascurabile quota di utenza che non trova conveniente utilizzarle.

In paesi europei con una avanzata cultura ciclabile, si è constatato infatti che in ambito urbano circolare su percorsi ciclabili separati che costeggiano la carreggiata spesso non è più sicuro che circolare in strada, e che agli incroci più pericolosi i rischi di incidenti restano pari o addirittura aumentano.

Le ragioni che portano ormai quasi tutti i tecnici nel mondo ciclisticamente evoluto a preferire le soluzioni di preferenziazione sono molteplici: la penalizzazione nei tempi di percorrenza (soprattutto per quanto riguarda gli spostamenti casa-lavoro), la ridotta visibilità agli incroci, i costi e i tempi di realizzazione, i ridotti spazi a disposizione per l’inserimento dei percorsi, i limiti di capacità, il conflitto con i pedoni, …

Proprio per tale aspetto in Francia si è deciso di realizzare piste ciclabili separate su strade con limite di velocità a 70Km/h (tendenzialmente in ambito extra-urbano o lungo assi stradali di grande scorrimento), corsie ciclabili su strade con limite di velocità a 50Km/h (le strade urbane della rete primaria) e nessuna infrastruttura ciclabile su strade con limite di velocità a 30Km/h (zone 30).

Sempre Gilbert Lieutier sostiene inoltre come sia necessario che la ciclabilità non releghi i ciclisti fuori dalla sede stradale perchè ciclisti e automobilisti, ciascuno nel proprio spazio, non si riconoscono e come sia meglio prendere spazio alle automobili piuttosto che ai pedoni.

Anche a Berlino sono giunti alla stessa conclusione. La chiave del successo berlinese sta indubbiamente nella rete di piste ciclabili. Si tratta di oltre mille chilometri che coprono l’intera metropoli. Di questi, 650 sono ritagliati sui marciapiedi, cioè strisce nettamente separate dalla carreggiata riservata alle auto. «Ma questo sta cambiando – dice Roland Huhn (capo dei Trasporti dell’Adfc), – Prima si pensava che tenere le biciclette lontane dalle auto fosse la cosa migliore, che il ciclista si sentisse più sicuro e protetto. Ma abbiamo visto che non è vero. Innanzitutto, quella sicurezza è mal riposta quando si avvicina a un incrocio. In secondo luogo, queste piste favoriscono gli incidenti con i pedoni. Terzo, il guidatore di un’auto fatica a vedere chi è in bicicletta».

Si riportano infine i risultati del recentissimo studio condotto a Madrid prima e dopo la costruzione di tre ciclovie, a due anni di distanza, per i quali i percorsi ciclabili separati frenano l’uso della bicicletta:

  • nelle tre aree di studio si è rilevato un aumento dell’uso della bicicletta, come nel resto della città, ma non nelle strade dove sono stati realizzati i percorsi separati. Il numero di ciclisti cresce di più nelle strade dove non si è fatto nulla;
  • la pista ciclabile su marciapiede ha avuto un effetto controproducente per il traffico: avendo espulso gran parte dei ciclisti dalla carreggiata si è verificato un aumento delle velocità dei veicoli a motore;
  • chi apprezza maggiormente i nuovi percorsi ciclabili separati sono i pedoni, che lo considerano come un allargamento del marciapiede.

Secondo lo studio quindi «la soluzione più costosa possibile ha dimostrato di essere più inefficiente che non fare nulla, e persino controproducente. Non solo non sono servite per far crescere l’uso della bicicletta, ma hanno straformato le strade in cui si sono realizzate le piste meno attrattive per l’uso quotidiano, spostando i ciclisti veloci nelle strade parallele e lasciando queste infrastrutture per il tempo libero di chi circola a meno di 15Km/h, che è una strana maniera di offrire alternative competitive ai tragitti in automobile».

D’altronde le città italiane, che hanno sino a ieri ignorato il tema della ciclabilità, devono affrontare il problema di favorire la massima espansione dell’uso della bicicletta nel modo più sicuro possibile ed il più rapidamente possibile, compatibilmente con la scarsità di risorse reperibili.

Questa è l’ottica con la quale oggi va valutata la separazione, che seppur efficace in alcuni casi e per alcune tipologie di utenti, è costosa e lenta da implementare. La condivisione appare in questo senso assai più promettente ed è infatti questa la strada che si sta seguendo in moltissime città di ‘nuova ciclabilità’ (e non solo in quelle).

Come già evidenziato, tale approccio deve sempre comprendere sia la ‘preferenziazione’ (come ad esempio le cycle superhighways di Londra) che la moderazione, ed è proprio il secondo aspetto quello in assoluto più importante. La moderazione, assieme alla messa in sicurezza dei molti punti pericolosi in genere ben diffusi nelle reti stradali urbane, rende molto più sicuri ed efficaci gli interventi di preferenziazione e, soprattutto, restituisce maggior sicurezza per tutti, automobilisti compresi.

Tutto questo non significa ovviamente abbandono dei progetti di realizzazione di piste separate, ma significa riservarli ai casi in cui risultino davvero indispensabili, vuoi per la presenza di una utenza particolarmente vulnerabile, vuoi per la tipologia delle strade cui si appoggiano (assi di scorrimento lunghi e veloci), vuoi per l’importanza ‘topologica’ (costruzione di ‘anelli mancanti’ della rete).

Si aggiunga un’ulteriore considerazione: nelle città italiane stiamo assistendo -finalmente- a una chiara crescita della mobilità ciclabile. Presto non saremo più nella condizione di dover inventare politiche per favorire ed incentivare l’uso della bicicletta, ma in quella di dover inseguire una domanda sempre più alta, destinata a crescere ben più rapidamente dei metri di piste che si potranno mai realizzare. Va colta pienamente l’urgenza del cambiamento, perché la crescente domanda sia gestita con un tempestivo adeguamento dell’offerta (cit. Alfredo Drufuca).

Concludo con un ultimo esempio eloquente a conferma di quanto finora sostenuto: Stevenage, una delle prime “New town” inglesi, di circa 80 mila abitanti, situata a 50 chilometri da Londra.

Come riportato recentemente sul sito web dell’ECF, Stevenage ha subìto una riprogettazione del tessuto urbano verso gli inizi degli anni ’70. Quest’opera, fortemente voluta dall’ingegnere Eric Claxton affascinato dalle prime esperienze olandesi di città a misura di bicicletta, ha dotato Stevenage di una maxi-rete di piste ciclabili separate, ponti e sottopassaggi ciclopedonali. Ma dopo un primo picco del 14% degli spostamenti quotidiani in bicicletta (comunque negli anni successivi alla prima crisi energetica) il dato è progressivamente diminuito scendendo oggi addirittura sotto il 3%.

Ma cos’è che non ha funzionato nella strategia di Stevenage? E quale insegnamento possono trarne le nostre amministrazioni? Qualche risposta ha provato a darla l’ECF, secondo la quale Claxton, che pure era un ciclista urbano con le migliori intenzioni, con la sola realizzazione di piste ciclabili non ha affrontato il problema dell’uso dell’automobile.

La conclusione, sempre secondo ECF, è abbastanza ovvia: non è sufficiente una singola misura per portare più persone in bicicletta. E’ necessario invece un insieme di interventi dai quali emerga una visione chiara della mobilità, a partire dalla moderazione del traffico motorizzato (separazione solo su grandi arterie) passando per le corsie ciclabili in carreggiata, disincentivo dell’auto privata e riduzione del parco auto, bike sharing, intermodalità e miglioramento del trasporto pubblico, campagne di sensibilizzazione sulla convenienza dell’uso della bicicletta e sulla sicurezza in strada, facilities per i ciclisti. Eccetera, eccetera, eccetera.

Insomma la visione di città frutto dei risultati degli Stati Generali della Bicicletta e della Mobilità Nuova.

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