C’è un’emergenza non riconosciuta che quotidianamente devono affrontare tutti i cittadini italiani: quella degli incidenti stradali.
I numeri, se solo ci si sofferma a guardarli, sono drammatici: nel 2018 si sono registrati 3.325 morti e 242.621 feriti, gran parte dei quali in ambito urbano.
Una vera a propria strage che coinvolge tutti, a partire dagli utenti più deboli della strada – pedoni (uno ogni 15 ore) e ciclisti (uno ogni 31 ore) – per arrivare agli stessi utenti motorizzati, automobilisti e motociclisti (uno ogni 4 ore).
Tra i 3.325 morti, 43 erano bambini.
Una emergenza che inoltre comporta anche un costo sociale altissimi, pari a 17 miliardi di euro l’anno, il 2% del PIL; una tassa insensata, che continuiamo a pagare per mantenere un modello di mobilità superato che può e deve essere cambiato, come sta avvenendo ovunque in Europa.
Mentre Oslo vede chiudersi il primo anno senza morti sulle strade e gli incidenti gravi si riducono in tutte le aree urbane d’Europa, l’Italia va in senso opposto.
Un motivo c’è, ed è chiarissimo: in Italia non si può e non si vuole ridurre e controllare le velocità, fattore determinante della gravità degli incidenti, soprattutto in ambito urbano.
Per questo la gran parte delle città europee sta diventando “città 30”, cioè città dove tutte le strade adottano il limite di velocità a 30Km/h tranne le strade principali (Amsterdam, Copenaghen, Parigi, Berlino, Barcellona, Valencia, Bilbao, Londra, solo per citarne alcune) e dove il controllo dei limiti di velocità è costante, diffuso, non segnalato o addirittura gestito da privati come in Francia.
Da noi invece non solo la riduzione delle velocità fatica a imporsi, ma nemmeno è possibile utilizzare strumenti efficaci di controllo di velocità in ambito urbano: secondo l’attuale normativa infatti (L.121/2002) la loro installazione è consentita sulle autostrade e strade extraurbane principali e può essere ammessa, dietro autorizzazione prefettizia, sulle strade extraurbane secondarie e sulle strade urbane di scorrimento solo in presenza di condizioni ‘tassative’ che certifichino l’impossibilità di fermare il contravventore in condizioni di sicurezza, mentre non può mai essere prevista sulle ‘normali’ strade urbane, dove tuttavia ‘normalmente’ si registra la metà dei morti in incidenti stradali.
Non rientra quindi tra le condizioni che rendono impossibile l’arresto immediato del veicolo quello in assoluto più ovvio e rilevante, quello cioè della strutturale sproporzione tra numero di veicoli in circolazione e forze impiegabili per svolgere i necessari controlli.
I recenti gravissimi fatti di cronaca avvenuti a Roma e in Alto Adige impongono con drammatica urgenza di modificare in senso diametralmente opposto l’attuale normativa, al fine di rendere possibile i controlli delle velocità dove più sono necessari, a iniziare dai luoghi sensibili della viabilità urbana e dai punti di maggiore incidentalità.
È una misura che non solo ci consentirebbe nell’immediato di ridurre il numero di morti sulle strade e risparmiare parte dei 17 miliardi di euro l’anno, ma che avvierebbe un processo di maturazione culturale in tutti gli attori coinvolti –automobilisti, tecnici, amministratori- che solo può portarci a conquistare l’unico traguardo eticamente accettabile, quello della ‘vision zero’.
Abbiamo solidi argomenti e strumenti efficaci per spiegare e creare il consenso tra i cittadini; pensiamo alle campagne contro il fumo, sul controllo del tasso alcolico per i guidatori per arrivare alle campagne contro il bullismo e la violenza di genere. Usiamoli per questo fondamentale tema di civiltà.